SOS ANSIA

PERCORSO PSICO-EDUCATIVO ON-LINE SOS ANSIA

Tachicardia, paura, tremori, respiro corto, fame d’aria, confusione mentale, agitazione, disagio. In una parola: ANSIA. Sai di cosa parlo? Se convivi con l’ansia da poco o da tanto tempo, ho una proposta per te. Sappiamo, infatti, quanto sia difficile farcela da soli: UN PERCOSO CLINICO PSICO-EDUCATIVO ON-LINE

Se hai poco tempo da dedicare al tuo problema, ai tuoi dubbi, al cambiamento che vorresti nella tua vita, non devi certo rinunciare alla possibilità di fare qualcosa. La lunghezza di un percorso, infatti, non è sempre indice né di qualità né di efficacia. Per questo motivo ti propongo un percorso psico-educativo pensato apposta per te, pensato cioè per tutte quelle persone che, come te, vogliono intraprendere il cammino verso una maggior consapevolezza di sè e delle proprie risorse, una miglior qualità di vita e quindi un maggior benessere, senza sorprese.

PUNTI DI FORZA DEL PERCORSO PSICO-EDUCATIVO PROPROSTO:

  • ha una durata limitata e prestabilita;
  • è efficace perchè mirato;
  • è finalizzato al raggiungimento di obiettivi dichiarati anticipatamente;
  • ha un costo predefinito;
  • per ottimizzare i tempi avviene interamente on-line, permettendo grande libertà organizzativa, anche rispetto alla frequenza;
  • si colloca all’interno della cornice del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, quindi con tutte le più stringenti tutele.

Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA

Dott.ssa Silvia Darecchio contatti

Perchè ho sempre la pancia gonfia?

Pancia gonfia: potrebbe essere lo stress?

La medicina cinese dice di si. L’antica tradizione medica orientale considerava il gonfiore addominale alla stregua di un eccesso di ansia che non veniva espressa efficacemente e che, in modo involontario, era trattenuta all’interno del corpo. Oggi, grazie agli enormi passi fatti in ambito psico-neuro-immuno-endocrinologico, sappiamo che è davvero così. Pensiamo banalmente anche solo a come respiriamo, quando siamo stressati, ansiosi e agitati. Per la maggior parte del tempo respiriamo in modo affannato… anche quando mangiamo! Questo comporta l’ingestione di molta aria che, non potendo essere espulsa (perché “mangiata” e non semplicemente respirata), resta intrappolata nello stomaco e poi nell’intestino, causando appunto la cosiddetta “pancia gonfia”.

Attenzione quindi alla pancia gonfia! Potrebbe dirci tanto di come siamo e di come stiamo. Ma non solo…

Un cervello nella pancia

Pancia e stress hanno un legame molto complesso. Infatti non tutti sanno che abbiamo nell’ addome un “secondo cervello” responsabile della digestione, ovviamente, ma anche della produzione di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori capaci di influenzare i nostri stati d’animo. Quindi le tensioni, i conflitti, le arrabbiature, lo stress emotivo si “accumulano anche nella pancia”, nel senso che gli stress vissuti determinano il rilascio, in quella zona, dei neurotrasmettitori che, a loro volta, influenzano il nostro umore. 

C’è di più: incredibilmente il cervello “della pancia” pare essere dotato anche di una memoria. I due cervelli quindi, quello addominale e quello intracranico, creerebbero tra loro una via privilegiata di comunicazione, un asse di scambio di informazioni estremamente sensibile, capace di tenere in memoria gli eventi stressanti del nostro passato, anche molto lontano nel tempo. Questo spiegherebbe ad esempio il legame tra le coliche della prima infanzia e lo sviluppo in età adulta della sindrome del colon irritabile.

PER APPROFONDIRE
Intestino cervello “dialogano” fittamente tra loro, questo perchè anche nell’intestino è presente una piccola quantità di cellule neuronali che, influenzate da fattori interni ed esterni (ad esempio le emozioni), rilasciano ben il 95% della serotonina totale. La serotonina, detta anche “ormone della felicità”, è appunto il neurotrasmettitore che regola gli stati d’animo e quindi l’umore; essa porta con sè delle informazioni destinate direttamente al sistema limbico del cervello, che deve rielaborarle.
Se la persona sperimenta emozioni negative, associate a stati di ansia, di paura o di tensione, il cervello “ordina” all’intestino di rilasciare altra serotonina, tuttavia questo intervento ha delle ripercussioni sulla funzionalità dell’apparato digestivo: la muscolatura addominale si contrae provocando tensione, gonfiore, crampi, diarrea o stitichezza, spasmi e crampi. Avere la muscolatura addominale contratta nella zona diaframmatica significa, invece, avere una digestione rallentata e problematica (la dispepsia). Non solo: le emozioni negative e lo stress, oltre ad avere ripercussioni sull’intestino, agiscono anche sullo stomaco, inducendo una ipersecrezione di acido cloridrico che, se cronica, può portare ad infiammazione delle mucose, terreno fertile per fastidiosi bruciori, gastrite e addirittura ulcere.

Se vuoi ulteriormente approfondire ti consiglio di leggere questo articolo: “Psicosomatica: l’intestino”

Non solo pancia gonfia

Il fastidioso senso di pancia gonfia, le difficoltà digestive, gli episodi frequenti di diarrea potrebbero quindi avere un’origine psicosomatica. Tra i sintomi, sempre più frequenti, che le persone portano ai loro medici di base vi sono:

  • pancia gonfia;
  • stomaco gonfio;
  • stitichezza;
  • diarrea;
  • nausea;
  • dolori addominali;
  • crampi;
  • meteorismo;
  • flatulenza;
  • digestione rallentata.

Al perdurare di questi sintomi il medico di base risponde con doverose e preziose indagini diagnostiche finalizzate alla scoperta delle cause organiche che potrebbero portare ad avvertire questi disturbi, tra esse:

  • intolleranze alimentari;
  • allergie;
  • infiammazioni;
  • calcoli biliari;
  • ulcere;
  • diverticoli;
  • polipi intestinali. 

Tuttavia abbiamo visto come un addome costantemente gonfio e affaticato non sempre dipenda da una patologia di tipo organico. Abbiamo spiegato infatti quanto sia stretta la correlazione tra le emozioni negative, lo stress e i disturbi gastrointestinali. Proprio per questo quindi, una volta che gli esami diagnostici hanno escluso un’origine patologica dei sintomi, è importante e utile cercare di lavorare sul nostro stato psicologico e sulle modalità che usiamo per affrontare la quotidianità, i problemi e le relazioni. Vale la pena fare un bilancio sulla quantità di stress che il vivere la nostra vita comporta e provare a trovare soluzioni valide per fronteggiarlo al meglio, riuscendo ad evitare così pericolose e insidiose somatizzazioni.

Hai anche tu problemi gastrointestinali?
Hai un stile di vita stressante?
Ti fai carico di tutto e di tutti?
Tendi a “sentire tutto nella pancia”?
NON SOTTOVALUTARE UNA SOLUZIONE PSICOLOGICA!

Come psicologa posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità, del tuo modo di “funzionare” e di affrontare i problemi. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere psico-fisico anche grazie alla proposta di tecniche di gestione dello stress. Da più di 10 anni, attraverso i servizi di consulenza on-line  e di counseling in studio, ascolto ed aiuto le persone concretamente ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali, a superare gli ostacoli e a riprogettare il futuro. Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti


Non riesco a dormire


E’ ormai notte fonda. Siamo a letto, ma siamo ancora svegli: abbiamo guardato un’ altra puntata di quel programma, letto due pagine, bevuto una tisana, spento la luce, acceso la luce, spento la luce. E ora continuiamo a rigirarci, tentando di trovare la posizione che ci permetterà di prender sonno. Invano. Le ore passano, ma continuiamo ad essere svegli: pensiamo al giorno che ci attenderà e che ci vorrà pieni di energie, ci preoccupiamo, ci alziamo dal letto tanto per vedere se funziona. Siamo sempre più stanchi ma non riusciamo ad addormentarci.

dormire 3

Senza alcun dubbio, sono tante le persone che hanno trascorso almeno una notte della propria vita in questo modo: passando le ore svegli nonostante la stanchezza e il profondo desiderio di dormire. I sintomi dell’insonnia infatti sono molto comuni. I dati ci dicono che mentre circa il 30-35% della popolazione mondiale manifesta qualche difficoltà nel sonno, ben il 10-15% della popolazione lamenta difficoltà quotidiane associate ad un disturbo da insonnia propriamente detto. Il sintomo più frequente, nei più giovani, è la difficoltà nell’addormentamento, mentre per le persone di mezz’età e anziane la manifestazione più tipica è rappresentata dai risvegli frequenti durante la notte. Il disturbo da insonnia può manifestarsi a qualsiasi età, anche se il primo episodio avviene solitamente nella tarda adolescenza/prima età adulta; è più frequente nelle donne; è più frequente nei pazienti psichiatrici.

dormire 2Disturbi del sonno

Come spiega il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V) i disturbi del sonno sono, oltre al più conosciuto e diffuso disturbo da insonnia: il disturbo da ipersonnolenza, la narcolessia, i disturbi del sonno correlati alla respirazione, i disturbi dell’arousal del sonno REM, la sindrome da gambe senza riposo e il disturbo del sonno indotto da sostanze/farmaci.

Disturbo da insonnia

Se le alterazioni del sonno si verificano per periodi che vanno da qualche giorno a qualche settimana, si parla di disturbo acuto del sonno. Quando le alterazioni del sonno si manifestano per almeno 3 mesi, si parla invece di disturbo da insonnia.  L’insonnia è un disturbo caratterizzato da un sonno insoddisfacente e non riposante che si manifesta con sintomi notturni, quali:

  • difficoltà nella fase di addormentamento,
  • risvegli notturni frequenti,
  • precoci risvegli mattutini. 

e sintomi diurni: 

  • stato di fatica quotidiana / affaticabilità;
  • preoccupazioni circa il sonno;
  • sonnolenza diurna;
  • difficoltà cognitive: deficit dell’attenzione, nella concentrazione e nella memoria;
  • maggiore irritabilità;
  • senso generale di malessere spesso associato ad un tono dell’umore alterato;
  • maggiore labilità emotiva;
  • sintomi ansiosi e depressivi;
  • peggioramento nel rendimento sociale e lavorativo;
  • sintomi fisici, quali: fastidi gastrointestinali, stati di tensione muscolare, mal di testa, fomicolii.

Inutile dire che il disturbo da insonnia provoca un preoccupante calo della qualità di vita dell’individuo.

L’insonnia può associarsi a:

  • disturbi medici (ad esempio ipertensione e disturbi cardiaci);
  • disturbi psichiatrici (ad esempio disturbi d’ansia e disturbi dell’umore);
  • cattive abitudini comportamentali (ad esempio l’abuso di caffeina, l’utilizzo eccessivo di videoterminali o il passare troppo tempo a letto);
  • cattive abitudini cognitive (ad esempio sforzarsi o preoccuparsi di non riuscire ad addormentarsi).
dormire

In alcuni casi l’insonnia è uno dei primi segnali dello sviluppo di un disturbo psichiatrico che va identificato e trattato per tempo. Nonostante il disturbo da insonnia sia molto diffuso nella popolazione generale, le cause che ne determinano il manifestarsi non sono ancora state comprese completamente. La comunità scientifica è, tuttavia, ormai concorde nel ritenere che a favorire l’esordio e il mantenimento del disturbo sia un insieme di fattori genetici, comportamentali, emotivi e cognitivi.

  • Fattori genetici: esiste una predisposizione genetica che rende alcuni individui più vulnerabili a sviluppare il disturbo da insonnia. Grazie alle ricerche effettuate sappiamo, infatti, che il 30% dei soggetti affetti da insonnia ha un familiare che soffre dello stesso disturbo.
  • Fattori comportamentali: sono state individuate alcune abitudini comportamentali capaci di favorire   l’insorgenza e il mantenimento dell’insonnia. Tra queste: usare dispositivi elettronici prima di addormentarsi (ad es. computer o smartphone), passare molto tempo a letto, avere orari e ritmi di sonno/veglia irregolari, dormire durante il giorno.
  • Fattori emotivi: in molti casi il disturbo da insonnia esordisce durante un periodo di stress acuto, per eventi avversi o insistenti preoccupazioni, e tende poi a cronicizzarsi. L’insonnia è inoltre presente come sintomo in molti disturbi mentali, in alcuni casi la sua comparsa può essere il primo sintomo di un disturbo psichiatrico più importante (ad es. la depressione maggiore).
  • Fattori cognitivi: alcuni stili cognitivi possono favorire l’insonnia, ad esempio il tendere a rimuginare. La tendenza a rimuginare e a preoccuparsi possono infatti causare difficoltà nell’addormentamento. Tali difficoltà portano poi a generare ulteriori preoccupazioni che non fanno altro che peggiorare il quadro dell’insonnia.

Disturbi d’ansia e insonnia

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Diversi studiosi hanno dimostrato un’associazione, clinicamente e scientificamente nota, fra il disturbo da insonnia e i disturbi di ansia. Nel disturbo da insonnia l’ansia  può agire come causa e come aggravante del problema: l’ansia di non riuscire a dormire alimenta l’insonnia, che a sua volta aumenta l’ansia, in un circolo vizioso che tende a cronicizzarsi. Anche il Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali (DSM V) sancisce un legame fra questi due disturbi e riconosce, tra i sintomi del disturbo da ansia generalizzata (GAD), diverse “alterazioni del sonno”, quali:

  • difficoltà ad addormentarsi;
  • difficoltà a mantenere il sonno;
  • sonno inquieto;
  • sonno insoddisfacente.

Le persone che manifestano il disturbo d’ansia generalizzata (GAD), infatti, rispetto al sonno tendono a soffrire di difficoltà di addormentamento, a svegliarsi diverse volte durante la notte, ad avere un sonno qualitativamente compromesso, a temere di non riuscire più a dormire in modo soddisfacente. Spielman (1987) ha elaborato un interessante modello eziologico dell‘insonnia in cui riconosce i 3 fattori responsabili dello sviluppo del disturbo:

  • I fattori predisponenti;
  • I fattori precipitanti;
  • I fattori perpetuanti.

I fattori predisponenti:  sono i fattori che “preparano il terreno” all’ insonnia, come un contesto particolarmente stressante oppure alcune caratteristiche individuali, come l’essere ansiosi o ipervigili. Infatti l’ ansia, associata a rimuginio e ruminazione, favorisce la veglia e ostacola il sonno. In questo senso alcune persone hanno una maggiore “predisposizione” a sviluppare il disturbo da insonnia.

I fattori precipitanti: sono quei fattori che determinano l’insorgenza vera e propria dell’ insonnia. Parliamo di eventi che, a causa di loro determinate caratteristiche, aggravano la predisposizione dell’individuo a non dormire; un fattore precipitante potrebbe essere rappresentato, ad esempio, dall’aggravarsi di un problema (relazionale, di salute, lavorativo), da un episodio specifico (un incidente), da un evento ingestibile (un lutto) o, più semplicemente, dalla presenza di generiche preoccupazioni. Se ai fattori predisponenti aggiungiamo fattori precipitanti, ecco che l’insonnia risulta essere il risultato di uno stress eccessivo, fatto di ansia, di squilibri emotivi e di preoccupazioni.

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I fattori perpetuanti: sono i fattori che mantengono nel tempo il disturbo da insonnia, che diventa cronico. I fattori che perpetuano il disturbo sono rappresentati da tutti quei comportamenti disfunzionali che la persona mette in atto per riuscire a “sconfiggere l’insonnia”: pensare all’insonnia, ai perchè, pensare ai danni causati dal proprio non dormire, rimuginare, preoccuparsi, immaginarsi scenari catastrofici e tutta una serie di comportamenti compensativi.  Tuttavia alla base di questi comportamenti vi è sempre l’ansia, che alimenta il disturbo e ne impedisce la risoluzione. L’ansia di non riuscire a dormire alimenta l’insonnia che, a sua volta, aggiunge ansia all’ansia, aumentando lo stato di attivazione interna (arousal) e generando un circolo vizioso che renderà ancora più persistente l‘insonnia. Questo circolo vizioso, fatto di pensieri disfunzionali, ansia e comportamenti compensativi errati, potrebbe proseguire all’infinito. In questo senso un ruolo fondamentale è giocato dai pensieri “tossici”, dalle distorsioni cognitive, che oltre a causare emozioni negative, rappresentano convincimenti falsi, ovvero non basati su verità oggettive ma su credenze soggettive erronee.

Risolvere il disturbo da insonnia significa, quindi:

  1. intervenire sull’ansia: alla base del disturbo c’è l’ansia, che ostacola la serenità della persona e impedisce il riposo;
  2. intervenire sui pensieri: è fondamentale modificare i pensieri disfunzionali, che contribuiscono a mantenere e a peggiorare il disturbo;
  3. intervenire sulle emozioni negative: spesso per riposare adeguatamente vanno affrontate e gestite anche le proprie emozioni negative.

Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA

Dott.ssa Silvia Darecchio

Adolescenza: quando la scuola mette ansia

Quella dell’ansia da prestazione scolastica è una difficoltà che si trovano a vivere tanti studenti pre-adolescenti ed adolescenti nella loro quotidianità, anche ai tempi del COVID-19. L’ansia da prestazione scolastica, che in interessa sempre più anche i bambini più piccoli (seppur con manifestazioni diffrenti), è caratterizzata fondamentalmente da:

  • la paura dell’insuccesso;
  • la paura del giudizio negativo degli altri;
  • la paura dell’eventualità di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

Nasce, quindi, dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati o ridicolizzati: la paura di una prestazione imperfetta non solo sembra allontanare l’obiettivo che si voleva raggiungere ma potrebbe esporre alla critica e alla svalutazione.

Tuttavia è anche vero che i ragazzi, travolti dall’ansia scolastica, tendono spesso a compiere errori di valutazione su di sè, sui coetanei e sugli insegnanti. Vediamo alcuni degli errori più comuni che, se non individuati, non fanno altro che alimentare il circolo vizioso dell’ ansia da prestazione.

Non creiamoci profezie che si auto-avverano. Se ci danno delle etichette o, peggio, se siamo noi stessi a darcele, è molto probabile che alla lunga ci identificheremo con quella etichetta, finendo con essere quello che pensiamo di essere. Focalizziamo la nostra attenzione e valutiamo, invece, il nostro comportamento, non le nostre “qualità”. Il comportamento infatti può essere sempre modificato, a differenza di presunte qualità negative che, spesso erroneamente, ci attribuiamo. Aumenteremo così il senso di controllo sulla nostra vita, proveremo emozioni meno spiacevoli e individueremo, con maggior facilità, i passi necessari da effettuare per cambiare e, quindi, per migliorarci .

Questo modo di affrontare una prova andata male è molto più funzionale perchè ci consente di tenere al riparo, dai colpi bassi della vita, la nostra autostima. In questo caso, infatti, il ragazzo dimostra di avere ben chiara la differenza tra il proprio valore come persona e il proprio comportamento circostanziato (questa volta è andata così, la prossima andrà meglio) come studente. Altre volte, a tutti noi capita di andare in crisi a causa delle nostre teorie attribuzionali.

Anche in questo caso pensiamo che i fallimenti siano causati da mancanza di doti personali, cioè dimostriamo di possedere una teoria attribuzionale dell’insuccesso interna e stabile. Così facendo, facciamo dipendere l’insuccesso da “cose che abbiamo dentro di noi” (attribuzione interna) che non possiamo cambiare essendo nati così (attribuzione stabile). Ciò determina a cascata, poichè secondo questa teoria tutto è già deciso, una diminuzione della motivazione ad impegnarsi nello studio di quella data disciplina, perché tanto non servirà a niente… Fortunatamente, tuttavia, non esiste alcun gene della matematica, quindi tutti, applicandosi e impegnandosi, possono raggiungere brillanti risultati.

Esatto!

ATTENZIONE GENITORI!!! Anche i genitori devono fare la loro parte: è importante accompagnare con una motivazione positiva l’impegno che viene richiesto a scuola: è necessario studiare, imparare, impegnarsi in ogni attività che si compie, ma non per diventare i primi, bensì per apprendere cose che non si conoscono o non si sanno fare, divenire più competenti, effettuare un bel percorso di crescita personale. Anche per i ragazzi è utile l’uso dell’ apprezzamento degli adulti rivolto alle loro fatiche quotidiane.

Se la paura che paralizza è quella del giudizio degli altri, il nostro dialogo interno potrebbe essere questo:

Ci capita di pensare a ciò che di brutto potrebbe accadere, per essere preparati ad affrontarlo. La strategia di preoccuparsi per qualcosa che non si sa se accadrà è, però, sostenuta da una scorretta valutazione della probabilità che quell’evento accada realmente. Si confonde cioè la possibilità che ciò possa accadere con l’alta probabilità che accada realmente. E’ probabile che qualcuno possa considerare irrilevante la nostra domanda, ma per altri potrebbe essere utile. Alleniamoci a sopportare il fatto di non poter evitare che gli altri pensino quello che vogliono. Il problema di essere criticati è un “non problema” in quanto non ha soluzione! Se ci pensiamo bene, inoltre, il fallimento come tale non esiste: il vero insuccesso è l’ aver perso l’occasione di rischiare; qualunque sia il risultato ottenuto, meglio aver giocato e aver perso la partita, che non aver giocato affatto.

Può davvero essere difficile affrontare le situazioni che ci mettono ansia, anziché evitarle come abbiamo imparato a fare! Tuttavia fronteggiarle è l’unico modo per superarle. Evitare la situazione ansiogena placa sicuramente l’ansia, lì per lì, ma non farà altro che rendere più stabile il comportamento dell’evitamento, accrescerà la nostra insicurezza, non ci farà evolvere come persone, non ci permetterà di capire quante e quali risorse abbiamo dentro di noi. Affrontando le situazioni ansiogene alleneremo la nostra attenzione a focalizzarsi sugli aspetti positivi delle situazioni e non su quelli negativi (ad esempio: facendo la domanda abbiamo ottenuto dall’ insegnante la risposta che ha chiarito i nostri dubbi).

Come parliamo a noi stessi? Il dialogo che abbiamo con noi fa sempre la differenza, anche in questi casi:

Anche questa affermazione contiene alcune trappole boomerang, ovvero trappole del giudizio che tornando indietro ci danneggiano! In particolare, utilizzare il verbo “dovere” significa mettere in atto una pretesa nei confronti di noi stessi. Questa pretesa, inutile dirlo, ci farà stare in ansia, in quanto porta con sè un giudizio estremamente negativo su di noi qualora andasse male la prova di storia. Inoltre l’avverbio “assolutamente” non ci permette di considerare altre possibilità, se non quelle più catastrofiche.

Ecco un ottimo esempio di problem solving!

Ovviamente esistono tanti altri accorgimenti e tante tecniche per tenere a bada l’ansia da prestazione scolastica e, più in generale, per acquisire una maggior sicurezza in noi stessi come studenti e come persone, bisogna solo scegliere quelli che più fanno al caso nostro… Ricordiamoci infatti che: un ragazzo sereno è un alunno migliore!

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Pensi di soffrire di ansia da prestazione scolastica? Andare a scuola è una tortura? Tua/o figlia/o non vive bene l’esperienza della scuola? Sei preoccupata/o per questo e vorresti fare qualcosa per aiutarla/o?

Come psicologa, oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE e VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma) per COLLOQUI IN PRESENZA. Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.


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Coronavirus emergenza psicologica: IL TRAUMA

Il covid-19 ha avuto e ha un impatto traumatico sull’assetto psicologico degli individui. Un trauma, infatti, può essere definito come uno strappo improvviso ed imprevedibile dell’integrità psichica del soggetto, capace di provocarne un’alterazione delle capacità di adattamento. 

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COSA E’ UN’EMERGENZA

In Italia, dopo settimane di relativa calma dall’annuncio dell’esistenza nel mondo di una nuova forma virale, si è scoperto,  grazie (purtroppo) alle gravi condizioni di salute del povero “paziente 1”, che il  virus stava già da tempo diffondendosi pressoché indisturbato tra la popolazione del nord del Paese. In pochi giorni la situazione ha rivelato i suoi veri contorni, fino a rappresentare, per le Regioni più colpite, una vera e propria emergenza sanitaria, sociale, psicologica ed economica.

Ma cos’è un’emergenza? Con il termine emergenza, ci si riferisce solitamente a tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.


LA PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA

Ancora una volta la Psicologia, in particolare la Psicologia dell’Emergenza, ci viene in aiuto per affrontare al meglio l’emergenza rappresentata dall’epidemia di covid-19. La Psicologia dell’emergenza, si connota come quell’ambito volto alla ricerca, alla pratica e all’applicazione delle conoscenze psicologiche nei contesti di emergenza, ossia tutte quelle situazioni fortemente stressanti, che mettono a repentaglio il benessere del singolo o dell’intera comunità. La psicologia dell’emergenza studia il comportamento degli esseri umani in situazioni estreme. Tale disciplina, raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria e la sociologia, cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie, come quella rappresentata dalla pandemia che stiamo vivendo e che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico.

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LA PSICOTRAUMATOLOGIA

La psicotraumatologia è, poi, quella branca della Psicologia dell’Emergenza che si occupa dello studio del trauma psicologico, cioè delle situazioni in cui le reazioni ad un evento acuto e potenzialmente traumatico si cristallizzino e strutturano in sintomi psicologici clinicamente significativi, identificabili come un Disturbo (ASD: ACUTE STRESS DISORDER O PTSD: POST TRAUMATIC STRESS DISORDER). La psicotraumatologia indaga, cioè, le situazioni traumatiche e le reazioni delle persone ad esse. A livello operativo si realizza nel trattamento del trauma psicologico.

Il trauma psicologico può essere definito, in modo sintetico, come uno strappo improvviso ed imprevedibile dell’integrità psichica, capace di provocare un’alterazione nel tempo delle capacità di adattamento del soggetto. 
La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante in alcune persone c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Questo avviene perché l’impatto stressante dell’evento è annichilente e impedisce all’individuo, in quel momento, di elaborarlo ed integrarlo in un sistema di significato coerente. Importanti aspetti della definizione di “trauma psicologico” sono:

  • le  emozioni di intensità estrema,
  • la perdita di controllo,
  • l’impotenza.

L’interruzione del normale modo di processare l’informazione determina il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, infatti il ricordo, le sensazioni fisiche ed emotive e i pensieri associati all’evento traumatico non riescono ad essere integrati con le altre esperienze vissute.

Dopo il trauma può svilupparsi, in alcuni casi, un PTSD, cioè un Disturbo Post Traumatico da Stress. Nel DSM 5 ( il Manuale Statistico Diagnostico) il PTSD è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali:

  • l’esposizione a una situazione di forte minaccia alla vita o all’integrità fisica, per sé stessi o per gli altri;
  • la possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni;
  • l’ impossibilità a provare emozioni positive;
  • i sintomi di evitamento, sia a livello cognitivo che comportamentale;
  • l’ irritabilità;
  • la difficoltà di concentrazione;
  • l’ipervigilanza.

È importante sottolineare tuttavia che la maggior parte delle persone, anche se esposta a eventi potenzialmente traumatici, ha reazioni emotive transitorie che solo raramente si trasformano in un vero e proprio disturbo strutturato.


Se questa emergenza sanitaria e psicologica, rappresentata dall’ epidemia di COVID-19, ha risvegliato in te uno stato d’ansia antico o nuovo; se ti rendi conto che ti mancano, o stanno venendo meno, gli strumenti psicologici per fronteggiare la quotidianità e la condizione di isolamento; se non riesci a riposare perchè il tuo stato di attivazione interno non ti consente il rilassamento; se piangi spesso; se ti senti tormentato da pensieri scuri che non ti lasciano mai; se pensi di soffrire di un Disturbo Acuto da Stress o di un Disturbo Post Traumatico da Stress puoi chiamare il 3206259427. Gratuitamente riceverai una consulenza telefonica: “PSICOLOGIA & BENESSERE”,  infatti,  aderisce a questa iniziativa nazionale https://www.psy.it/psicologionline-la-professione-psicologica-a-disposizione-dei-cittadini.html. promossa dal CNOP (Consiglio Nazionale  Ordine Psicologi) per far fronte all’emergenza psicologica rappresentata dal COVID-19.

Coronavirus emergenza psicologica: L’ANSIA

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COSA E’ UN’EMERGENZA

In Italia, dopo settimane di relativa calma dall’annuncio dell’esistenza nel mondo di una nuova forma virale, si è scoperto,  grazie (purtroppo) alle gravi condizioni di salute del povero “paziente 1”, che il  virus stava già da tempo diffondendosi pressoché indisturbato tra la popolazione del nord del Paese. In pochi giorni la situazione ha rivelato i suoi veri contorni, fino a rappresentare, per le Regioni colpite, una vera e propria emergenza sanitaria, sociale, psicologica ed economica.

Ma cos’è un’emergenza? Con il termine emergenza, ci si riferisce solitamente a tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.

Sappiamo tutti quanto, molto spesso, emergenza significhi ANSIA.


ANSIA

L’esperienza dell’epidemia di un virus sconosciuto, di cui sappiamo poco e comunque non abbastanza, rappresenta un ottimo esempio di minaccia oggettiva alla quale è normale reagire con paura e, nei limiti, con ansia. L’ ansia è, infatti, l’emozione tipicamente umana  provata di fronte ad una minaccia percepita. A ben vedere l’ansia e la paura sono sostanzialmente la stessa cosa ma, mentre la paura può essere intesa come la valutazione automatica di una minaccia o di un pericolo reali, l’ansia è un sistema di risposta più complesso, che coinvolge fattori cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici.
Per chiarire, la paura è quella che sperimentiamo quando uno stimolo oggettivamente pericoloso mette a repentaglio la nostra incolumità: si reagisce con paura, ad esempio, quando un cane ringhiante compare improvvisamente sul nostro cammino. L’ansia, invece, è quella che potremmo provare in una dimensione di controllo e previsione: quando immaginiamo di vivere situazioni, per noi paurose, che non abbiamo ancora vissuto o quando ricordiamo – riattualizzandole – situazioni del passato in cui abbiamo avuto paura. La paura è nel “qui e ora”, l’ansia è nel “prima o dopo”.
Sia l’ansia che la paura sono state esperienze fondamentali per la sopravvivenza della specie umana, poiché hanno preparato e preparano l’organismo a rispondere alle minacce e al pericolo. Sono risposte normali e innate di attivazione, caratterizzate da un aumento della vigilanza e dell’attenzione con l’obiettivo di prepararci ad affrontare la minaccia predisponendoci a una risposta di attacco o fuga.

Tuttavia facciamo attenzione ai pensieri, alle emozioni, ai comportamenti di ansia perché l’ansia ad alti livelli, pur con l’intenzione di preservare la nostra integrità, non sempre è una buona consigliera, anzi, con facilità può portare a risultati paradossalmente disfunzionali (nel nostro caso: affollamenti nei supermercati, fughe in massa dalle “zone rosse”, ecc…).

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Per comprendere meglio il complesso fenomeno dell’ansia è necessario operare un’ulteriore distinzione tra ansia fisiologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione rivolti al passato e al futuro per una situazione percepita come minacciosa) ed ansia patologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione che perdura per la maggior parte della giornata, delle settimane e dei mesi indipendentemente dalla situazione vissuta). Mentre l’ansia fisiologica può prepararci ad affrontare una prova per noi difficile, l’ansia patologica è per lo più disfunzionale perché, essendo persistente e intensa, interferisce con il nostro modo di fronteggiare le difficoltà, portando a considerare come pericolosi eventi che in realtà non lo sono.

Cosa succede se prendiamo decisioni quando proviamo livelli d’ansia troppo elevati? Perché, quando decidiamo qualcosa con elevati livelli di ansia, abbiamo la tendenza a scegliere l’opzione peggiore?


SINTOMI COGNITIVI DELL’ANSIA

Dal punto di vista cognitivo i sintomi tipici dell’ansia sono:

  • il senso di vuoto mentale;
  • un senso crescente di allarme e di pericolo;
  • l’induzione di immagini, ricordi e pensieri negativi;
  • la messa in atto di  comportamenti protettivi cognitivi;
  • la sensazione marcata di essere al centro dell’attenzione altrui.

UNO STUDIO INTERESSANTE: L’ANSIA ECCESSIVA NON E’ UNA BUONA CONSIGLIERA

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, realizzato da un équipe di ricercatori dell’Università di California a Berkeley e dall’Università di Oxford, suggerisce che gli elevati livelli di ansia e di stress (la risposta di attivazione del sistema nervoso autonomo prolungata nel tempo) presentano una serie di effetti indesiderati che possono interferire nella realizzazione di molti compiti, rendendo anche le faccende quotidiane una vera impresa. Tra queste, il compito di prendere decisioni in un contesto di incertezza.

Lo studio succitato ha provato che le persone che sperimentano alti livelli di stress e ansia tendono:

  • a concentrarsi sugli aspetti negativi,
  • a pensare in modo catastrofico,
  • a rendere piccoli problemi enormi minacce,
  • ad avere una maggiore difficoltà a leggere e ad interpretare i segnali ambientali.
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I ricercatori hanno lavorato con 31 partecipanti che presentavano diversi livelli d’ansia e attraverso misure fisiologiche, misure di comportamento e modelli computazionali, ne hanno valutato l’ abilità nel prendere decisioni probabilistiche. Tra i metri di giudizio dei ricercatori, c’è stato anche un segmento oculare per calcolare la dilatazione della pupilla (un indicatore del fatto che il cervello secerne norepinefrina, la quale aiuta a inviare segnali a diverse regioni del cervello per aumentare la veglia e la disposizione ad agire).

Le persone fortemente ansiose hanno avuto maggiori problemi ad adattarsi rispetto a quelle meno ansiose. Tra i partecipanti più ansiosi è stata inoltre più debole la risposta pupillare, suggerendo un fallimento nel processare l’informazione che cambia a grande velocità (le pupille si dovrebbero invece dilatare quando, in ambienti mutevoli,  acquisiamo nuove informazioni).

I ricercatori suggeriscono che questo indica una relazione tra l’ansia e una scarsa abilità nel prendere decisioni in situazioni mutevoli oltre a presentare maggiori difficoltà nel leggere i segnali ambientali (di volatilità  o di stabilità), che possono aiutare ad evitare un risultato negativo. I risultati dello studio parlano per i soggetti più ansiosi, di un errore nei circuiti di ordine superiore del cervello deputati a prendere decisioni.


QUARANTENA: NON SOLO ANSIA

Alcuni ricercatori del King’s College, analizzando la letteratura a disposizione, hanno rilevato che le popolazioni sottoposte a quarantena tendevano a riportare, in generale, diversi sintomi psicologici, tra questi:


IMPATTO PSICOLOGICO SULLE DIVERSE FASCE DI POPOLAZIONE

I ricercatori hanno anche cercato di capire, sempre studiando la letteratura disponibile sul tema, se ci fossero delle caratteristiche individuali o demografiche che favorissero l’insorgere di questi sintomi. Emergeva chiaramente che i soggetti più colpiti erano i medici e gli staff ospedalieri (un rischio già evidente è che potremmo assistere a molti casi di burnout tra il personale che è in prima linea nel contrastare l’emergenza covid-19), così come i soggetti in giovane età.

Altre fasce della popolazioni più a rischio, come evidenziano i Centers for disease control and prevention statunitensi (Cdc), sono:

  • gli anziani,
  • i cittadini con malattie croniche,
  • le persone che già soffrono di disturbi mentali (anche lievi).

Si hanno ancora pochi dati sull’impatto psicologico che la quarantena può avere sui bambini, che in queste settimane sono costretti a restare in casa, lontani dalla scuola.

Che cosa peggiora la quarantena

Esistono, nella letteratura scientifica, delle evidenze che portano a considerare certi stimoli esterni come fonti di ulteriore stress e di peggioramento della condizione psicologica legata alla quarantena, i cossiddetti “stressor”. Tra questi, gli stressor più diffusi sono:

  • la durata della quarantena,
  • la paura di essersi contagiati,
  • la paura di poter contagiare i famigliari,
  • la noia,
  • la frustrazione,
  • l’essere privi di beni necessari (alimentari, per la salute, legati all’informazione),
  • la mancanza di chiarezza (in particolare sui diversi livelli di rischio).

Esistono poi fattori di rischio che possono aumentare la probabilità di avere difficoltà psicologiche, una volta finita la quarantena. In particolare, i ricercatori si sono concentrati sul quantificare gli effetti causati dalle perdite economiche e dallo stigma sociale che vivevano i soggetti isolati una volta liberi. E’ emerso che chi ha livelli di reddito più bassi mostra una necessità di supporto maggiore, sia economico che psicologico, durante e dopo i periodi di quarantena.


Se questa emergenza sanitaria e psicologica, rappresentata dall’ epidemia di COVID-19, ha risvegliato in te uno stato d’ansia antico o nuovo; se ti rendi conto che ti mancano, o stanno venendo meno, gli strumenti psicologici per fronteggiare la quotidianità; se non riesci a riposare perchè il tuo stato di attivazione interno non ti consente il rilassamento; se piangi spesso; se ti senti tormentato da pensieri scuri che non ti lasciano mai; se pensi di soffrire di un Disturbo Acuto da Stress puoi chiamare il 3206259427


Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti

Acufene e psicologia: uno psicologo per l’acufene?

“Fischiava per la mia tensione, un po’ come si fa con i taxi
Senza una tregua, una continuazione, ma come si fa a coricarsi?
Da solo nel letto a dannarmi, nella stanza cori urlanti”…

“Uno squillo ossessivo, come un pugno sul clacson
Primo pensiero al mattino
L’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo”…

“Sentivo fischi pure se il locale carico applaudiva
Calo d’autostima
Non potevo ascoltare la musica come l’ascoltavo prima
[…] una pressione continua
La depressione poi l’ira”…

“Credevano che fossi matto
Volevano portarmi dentro
Ho visto più medici in un anno
Che Firenze nel Rinascimento
Stress
Iniziano a dire non sanno che pesci pigliare
A parte quello d’aprile
Vorrei vederlo sparire”…

“Solo chi ce l’ha comprende quello che sento, nel senso letterale
E poi non mi concentro, mi stanca
Sto invocando pietà, […]
Il suono del silenzio a me manca
Più che a Simon e Garfunkel”…

Caparezza, “Larsen” (capitolo: la tortura)

DEFINIZIONE DI TINNITO E DI ACUFENE

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Cos’è questo fastidioso disturbo? La parola “tinnito” deriva dal latino tinnire, tintinnare, e indica la percezione di suono in assenza di uno stimolo acustico. Mentre “acufene” viene dal greco: acuo ascolto e fainomai ovvero suono, fenomeno acustico. Può essere avvertito sotto forma di ronzio, tintinnio, scroscio, fischio, sibilo o presentarsi come un complesso di più suoni che varia nel tempo. Il tinnito  (o acufene) può essere intermittente o continuo, può essere quasi impercettibile o avere un volume fastidiosamente alto e, solo in rari casi, può essere completamente eliminato. Soprattutto quando è continuo e molto alto può dar luogo a molteplici effetti concomitanti:

  • sofferenze emotive;
  • stress;
  • abbassamento del senso di auto-efficacia;
  • calo dell’autostima;
  • isolamento;
  • solitudine;
  • disturbi del sonno;
  • dolore;
  • difficoltà di concentrazione;
  • spossatezza;
  • difficoltà di comunicazione;
  • veri e propri stati depressivi.

“Percezione acustica non organizzata, non realmente prodotta da alcuna sorgente sonora, né all’interno né all’esterno del nostro corpo”. Più semplicemente: l’acufene. 

La definizione più corretta di acufene esclude tutti i fenomeni percettivi che riguardano rumori e vibrazioni che hanno un’origine meccanica e che sono prodotti da una generica fonte sonora all’interno del corpo (il battito cardiaco, il respiro, la deglutizione, ecc…). Se i ronzii, i fischi, i sibili, ecc… non sono prodotti nel corpo, ma sono prodotti all’interno delle vie uditive neuro-sensoriali (il cui punto di partenza è l’orecchio interno e il cui punto di arrivo è la corteccia temporale “uditiva” e viceversa), si può parlare di acufene propriamente detto.


CLASSIFICAZIONE DEGLI ACUFENI

Nella pratica clinica, tuttavia, esistono diversi tipi di classificazione degli acufeni:

1. ACUFENI OGGETTVI vs SOGGETTIVI

La classificazione più frequentemente proposta è quella fra acufeni oggettivi e soggettivi, in base alla possibilità di registrarne, con strumenti, la presenza:

  • OGGETTIVI: il suono è generato dall’attività biologica del corpo. Il rumore che il paziente percepisce esiste davvero ed è avvertibile anche dagli altri, trattandosi di rumori prodotti da strutture vicine all’orecchio che, a causa di un’alterazione dei rapporti vascolari o a causa di un aumento della pressione sanguigna possono trasmettere alle strutture ricettive il rumore del battito cardiaco.
  • SOGGETTIVI: è la forma più comune di acufene ed interessa circa il 20% della popolazione. In questo caso il suono è generato da un’anomala attività nervosa: il paziente sente cioè manifestazioni di impulsi elettrici “parassiti”, generati in qualche punto del sistema nervoso centrale. La condizione è spesso valutata clinicamente attraverso una semplice scala da “lieve” a “catastrofica” in base agli effetti che essa comporta, quali l’interferenza con il sonno e con le normali attività quotidiane. La ricerca recente ha anche proposto due categorie distinte di acufene soggettivo: l’acufene otico, causato dai disordini dell’orecchio interno o del nervo acustico e l’acufene somatico, causato da disordini che non riguardano l’orecchio o il nervo, pur trovandosi all’interno della testa o del collo. Si ipotizza inoltre che l’acufene somatico possa essere dovuto a un “central crosstalk” con il cervello.

2. ACUFENI AUDIOGENI vs NON AUDIOGENI

La classificazione fra acufeni oggettivi e soggettivi, fatta in base alla possibilità di registrarne la presenza, non appare sufficientemente realistica in quanto, ad oggi, non esistono strumenti in grado di misurarli. Altre classificazioni, basandosi sulle diverse strategie terapeutiche,  propongono la suddivisione degli acufeni in:

  • audiogeni (o endogeni): sono quelli ad alta probabilità di insorgenza da un danno o una disfunzione dell’apparato uditivo a livello della chiocciola (coclea) o delle vie nervose uditive: in questi casi l’orecchio registra e trasmette rumori provenienti patologicamente dal proprio interno. Nella coclea ci sono infatti 12.000 “microfoni” per trasformare i suoni in segnali elettrici. Essendoci tanta corrente elettrica nell’orecchio interno è evidente che, se qualche struttura subisce anche un piccolissimo danno, aumenta notevolmente quel “rumore elettrico” di fondo che può dare luogo all’acufene;
  • non audiogeni (o esogeni): sono quelli che originano in patologie e disfunzioni situate al di fuori dell’apparato uditivo, in altri organi o apparati, come quello vascolare, muscolare, articolare, che vengono solo percepiti dall’orecchio e quindi trasmessi al sistema nervoso. Anche gli acufeni provenienti dall’orecchio ma causati da presenza e movimento di secrezioni catarrali fra tromba di Eustachio e cassa timpanica dovrebbero essere considerati non audiogeni,  in quanto la loro origine è al di fuori del complesso chiocciola-vie nervose uditive.

LE CAUSE

L’acufene non è classificabile come una malattia, ma come un sintomo aspecifico; come una condizione che deriva da una vasta pluralità di cause e situazioni. Vediamone alcune:

  • danni neurologici (ad esempio dovuti a sclerosi multipla),
  • infezioni dell’orecchio,
  • stress ossidativo,
  • stress emotivo,
  • depressione,
  • presenza di corpi estranei nell’orecchio,
  • allergie nasali che impediscono (o inducono) il drenaggio dei fluidi,
  • accumulo di cerume,
  • l’esposizione a suoni di elevato volume,
  • la sospensione dell’assunzione di benzodiazepine,
  • effetto collaterale di alcuni farmaci (acufene ototossico),
  • accompagnamento della perdita dell’udito neurosensoriale,
  • conseguenza della perdita congenita dell’udito.

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ASPETTI PSICOLOGICI LEGATI ALL’ACUFENE

Da tempo l’acufene è riconosciuto come uno dei principali sintomi tra i disturbi fisici collegati allo stress e agli stati ansiosi  e negli ultimi è uno tra i più diffusi nella popolazione. Anche se colpisce le persone in modo diverso, è possibile che insieme agli acufeni nel paziente si presentino:

  • problemi del sonno,
  • affaticamento,
  • stress,
  • depressione,
  • difficoltà di concentrazione,
  • problemi di memoria,
  • ansia,
  • irritabilità.

Il trattamento di queste condizioni  non  influisce direttamente sull’acufene, ma può aiutare ad alleviarlo. In chi soffre di acufene è infatti comunemente riscontrabile una situazione di generico stress: stress che potrebbe esserne sia la causa, sia l’effetto. La comparsa del disturbo tende ad accentuare nel paziente irritabilità, nervosismo e ansia. E’ possibile affermare quindi che nell’acufene la componente neuro-psicologica sia prevalente; la componente psicologica, cioè, gioca un ruolo fondamentale nel generare, affrontare, mantenere, alleviare e risolvere il problema. Se è vero infatti che un sistema nervoso efficiente è essenziale per dominare l’acufene, è altrettanto vero che stress e nervosismo sottraggono al cervello le risorse necessarie a tenere sotto controllo il disturbo.

Il nostro sistema nervoso è in grado di affrontare la comparsa dell’acufene in modo ottimale: se il sistema nervoso funziona correttamente impara a identificarlo e gradualmente (da alcune settimane ad alcuni mesi) a costruire un “filtro”,  per impedirgli di arrivare al livello della coscienza. Parliamo del “meccanismo di percezione selettiva”. Una condizione di ansia, invece, è uno dei più grossi ostacoli alla guarigione: i pazienti con un basso livello di ansia, riuscendo a creare una condizione di distacco emotivo dal disturbo, guariscono prima, mentre quelli molto ansiosi tendono a fare più fatica, a causa dell’interferenza negativa che l’agitazione ha su tutte le attività cerebrali, anche su quelle necessarie a sopprimere l’acufene. Una cosa analoga accade con la stanchezza mentale checausando un diminuzione delle performance cerebrali, può portare ad un calo di prestazione del “filtro” e favorire il riapparire dell’acufene, anche a distanza di anni dalla guarigione.

L’acufene può provocare depressione ma, come accade anche con l’ansia e lo stress,  può essere vero anche il contrario: può essere cioè uno stato depressivo a rivelare l’acufene, riducendo l’efficacia del sistema di controllo (il cosiddetto “filtro”). L’ acufene infatti ce l’abbiamo tutti, anche chi normalmente non lo sente. Il non sentirlo dipende dal controllo della “centralina” neuronale del sistema limbico, posta a metà strada tra la periferica audio (chiocciola) e lo schermo della coscienza uditiva (corteccia temporale). Ricordiamo che i circuiti coinvolti maggiormente nella depressione sono due: la corteccia prefrontale (e.g., Samara et al, 2018), che è la sede delle nostre funzioni superiori, dei nostri pensieri e del controllo degli impulsi e, appunto, il sistema limbico (e.g., Redlich et al., 2018) che, collegato all’affettività e alle emozioni, filtra gli stimoli esterni attraverso lo stato emotivo.

Alcuni ricercatori del NIHR (National Institute for Health Research) del Nottingham Biomedical Research Center, attraverso uno studio compiuto su 500.000 persone tra i 40 e i 69 anni, sostengono di aver trovato una correlazione tra determinati tratti di personalità e acufene. I risultati della ricerca, pubblicati su Science Direct, mostrano come alcune caratteristiche personologiche siano maggiormente associate alla comparsa e al perdurare dell’acufene. Eccole:

  • tendenza ad isolarsi e a vivere in modo solitario,
  • tendenza a preoccuparsi per la maggior parte del tempo,
  • livello di attivazione nervosa elevato,  
  • umore basso o sbalzi di umore.  

La personalità e, forse ancor di più, i meccanismi di coping (strategie usate per fronteggiare lo stress), quindi, sembrano essere correlati alla percezione dell’ acufene. L’acufene perciò può, in buona sostanza, essere considerato un disturbo soggettivo: lo stesso livello di acufene può essere descritto da un paziente come intollerabile e da un altro appena percettibile (anche a causa del livello di stress, ecc…). Non tutti reagiscono allo stesso modo, ad esempio, anche se gli uomini ne sono risultati più colpiti, sono le donne che mostrano una propensione a ritenerlo più fastidioso. Molti pazienti con acufene infatti tendono a concentrarsi sul problema, intensificando in questo modo il disturbo. Un trattamento per la gestione dello stress può avere successo nella terapia dell’acufene, è necessario poi promuovere il sollievo attraverso uno spostamento dell’attenzione, il riposo da uno stato di tensione e il supporto alle difese funzionali a scapito di quelle disfunzionali.


DALLO PSICOLOGO PER L’ACUFENE

La maggior parte dei pazienti con acufene può essere aiutata da un intervento psicologico. Questo disturbo, solo apparentemente banale, può creare un vero e proprio stato invalidante, coinvolgendo l’assetto emozionale del malato, la sua vita di relazione, il ritmo sonno-veglia, le attitudini lavorative, il livello di attenzione e concentrazione, inducendo o, molto più spesso, potenziando stati ansioso-depressivi preesistenti, interferendo pertanto sulla qualità della vita. Gli effetti sulla vita delle persone colpite dal disturbo, così come dichiarato da loro stesse, sono spesso molto drammatici.

Quali soluzioni? Se viene individuata una causa di fondo, il trattamento medico dell’acufene può portare a miglioramenti. In caso contrario, se l’acufene è “da stress” , in genere si ricorre al sostegno psicologico.

Il sostegno psicologico

La vita di chi è affetto da acufene ha subìto un cambiamento in termini qualitativi. Lo psicologo in questi casi interviene come quell’alleato che aiuta la persona a mettere in campo le risorse necessarie ad affrontare il disagio e a ridare slancio alla propria esistenza. Con il sostegno psicologico non si cerca di eliminare l’acufene (ciò che tenta di fare, non sempre con successo, l’approccio otorinolaringoiatrico), si cerca invece migliorare la qualità di vita, il tono dell’umore, lo stato di benessere psico-fisico del paziente, portandolo ad avere più strumenti utili per superare i momenti di incertezza e di difficoltà derivati dall’acufene.

Chi soffre di acufene spesso è portato a pensare al peggio, ad un tumore cerebrale o ad altre gravi patologie endocraniche. Tuttavia vale la pena ricordare che l’intensità e la durata delle reazioni emotive di fronte ad un evento, dipendono strettamente dal significato che viene attribuito all’evento stesso. Ecco che il sostegno di uno psicologo, ovviamente previo un consulto con l’otorinolaringoiatra che dovrà escludere una patologia importante, si rivelerà fondamentale nel sostegno al paziente.

Mindfulness

L’obiettivo della Mindfulness è favorire il benessere psicologico della persona. In questo caso la Mindfulness cerca di facilitare la convivenza con il “disturbo acufene” contrastando la concentrazione dei pensieri e dell’attenzione sul disturbo. Accettare l’acufene non significa subirlo passivamente, significa compiere una scelta attentiva, significa allenare i processi mentali che portano ad escludere il più possibile, dalla coscienza, la fastidiosa interferenza uditiva. Il decentramento dei pensieri è un’altra azione cognitiva importante dove il soggetto non dovrà essere sopraffatto dal pensiero acufene. Il concetto di mindfullness deriva dagli studi di meditazione buddista, Zen e Yoga, scevro tuttavia da ogni componente religiosa. La mindfullness si è rivelata importante per imparare a vivere l’esperienza dell’acufene in modo differente da come siamo abituati a fare. Si deve imparare a valutare l’acufene come un fenomeno che accade dentro di noi, accettandolo per ciò che è, senza poterlo modificare. Nel paziente con acufene infatti si crea un circolo vizioso tra attenzione selettiva, pensieri rivolti al disturbo acufene e aumento del disagio. Questa meditazione si pone l’obiettivo di interrompere questo circolo. La finalità è quella di arrivare a decentrare i pensieri e scoprire di poter convivere con l’acufene.

In conclusione: il sostegno psicologico, soprattutto se basato sull’approccio olistico,  permette di lavorare sia sul corpo (sfera corporeo-emotiva) sia sui processi cognitivi (attenzione, pensieri, memoria, attribuzioni di significato, ecc…) connessi all’acufene. Il fine è recuperare il benessere, superando stress, ansia, eccessiva attivazione interna e negativismo. La mindfulness, in particolare, agisce migliorando le capacità soggettive di convivere con il sintomo.


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti 

Burnout: sindrome da stress lavoro-correlata riconosciuta dall’OMS

LA NOTIZIA: BURNOUT E OMS

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E’ notizia di quest’ultima settimana che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo decenni di studi, ha riconosciuto il burnout come una sindrome diagnosticabile, caratterizzata da una costellazione di sintomi e segni variabili, non riconducibili ad una causa comune. Inizialmente l’agenzia speciale delle Nazioni Unite aveva lasciato intendere che si trattasse di una malattia (con sintomi ripetitivi ed una causa certa) dopo averla inserita erroneamente per la prima volta nel relativo elenco. Poi, con più dati a disposizione, ha specificato che resta un fenomeno occupazionale (stress da lavoro) per il quale è possibile, oltre ad una diagnosi, una cura. 

MA COSA E’ IL BURNOUT?

Il termine inglese burnout (in italiano “scoppiato”, “crollato”, “spento”, “esaurito”) viene utilizzato per descrivere una sindrome caratterizzata da progressiva perdita di ideali, energia, propositi e scopi che si determina sui luoghi di lavoro.

Il primo ad occuparsi di burnout è stato lo psicologo Herbert Freudenberger nel 1974.

IL BURNOUT E’ UNO “STATO DI FRUSTRAZIONE NATO DALLA DEVOZIONE AD UNA CAUSA, AD UNO STILE DI VITA, AD UNA RELAZIONE CHE HA MANCATO DI PRODURRE LA RICOMPENSA ATTESA.”  H.J. FREUDENBERGER

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La sindrome del burnout, inizialmente associata solo alle professioni sanitarie e assistenziali, è oggi riconosciuta come associata a qualsiasi contesto lavorativo con alte condizioni stressanti. Secondo l’Istituto Nazionale della Salute Americano, chiunque può soffrirne, dalla celebrità alla casalinga, passando per le persone in carriera, agli impiegati sovraccaricati di lavoro. Molti studiosi considerano questa sindrome non solo come una condizione di sofferenza individuale legata al lavoro (stress lavorativo), ma anche come un problema di natura sociale provocato da dinamiche sociali, politiche ed economiche; la sindrome può infatti interessare il singolo lavoratore, lo staff nel suo insieme, l’azienda ma anche le istituzioni (per esempio i Vigili del Fuoco, i Militari, le Forze dell’Ordine ecc.).

IL BURNOUT COME SINDROME DA STRESS LAVORO-CORRELATA

Sappiamo che lo stress agisce a livello globale sul funzionamento dell’organismo danneggiando e incidendo negativamente sulla salute.  Nella situazione di burnout, il lavoratore, oltre a sperimentare un forte stress (concausa del disturbo), arriva a rinnegare le motivazioni emotive che lo avevano portato a scegliere quel lavoro. Maslach e Leiter (1997) hanno definito il burnout come una erosione dell’impegno nel lavoro, laddove l’impegno è caratterizzato da fattori quali: l’ energia, il coinvolgimento e l’ efficacia. Impegno e burnout allora, possono essere immaginati come le due estremità opposte di un continuum.

Le dimensioni tipiche del burnout sono:

  • Esaurimento: è la prima reazione ad una condizione di stress estremo. La persona sente di essere “esaurita” quando si accorge di aver oltrepassato il proprio limite emozionale e fisico: si sente incapace di rilassarsi, di recuperare, prosciugata, manca dell’ energia necessaria per affrontare novità e sfide.
  • Cinismo: tale atteggiamento rappresenta il tentativo di proteggere se stessi dall’esaurimento e dalla delusione. La persona assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone (colleghi, utenti, ecc…), per mettersi “al riparo”. Questo atteggiamento di indifferenza viene adottato per ridurre al minimo il proprio coinvolgimento emotivo nel lavoro e per mettere da parte (fino a rinnegare) i propri ideali e valori. Un atteggiamento così negativo può compromettere seriamente il  benessere di una persona, il suo equilibrio psico-fisico e la sua capacità di lavorare.
  • Inefficienza: è la conseguenza ultima del processo e si realizza quando la persona perde fiducia nelle proprie capacità e in sé stessa. Quando in una persona cresce la sensazione di inadeguatezza, qualsiasi progetto nuovo viene vissuto come opprimente. Il lavoratore ha l’impressione che il mondo trami contro ogni suo tentativo di fare progressi, e quel poco che riesce a realizzare, appare insignificante. Inutile e troppo difficoltoso diventa allora impegnarsi ulteriormente.

SINTOMI

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La sindrome si distingue dallo stress, così come si distingue dalla nevrosi, in quanto disturbo non della personalità ma del ruolo lavorativo. E’ caratterizzata da manifestazioni quali:

  • nervosismo,
  • irrequietezza,
  • apatia,
  • indifferenza,
  • cinismo,
  • ostilità.

Dal punto di vista clinico (psicopatologico) i sintomi del burnout sono molteplici, richiamano i disturbi dello spettro ansioso-depressivo, sottolineano la particolare tendenza alla somatizzazione e allo sviluppo di disturbi comportamentali.  Il soggetto colpito da burnout manifesta:

  • Sintomi aspecifici: insonnia, stanchezza, apatia, nervosismo, irrequietezza, esaurimento ;
  • Sintomi somatici: insorgenza di varie patologie (ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.)
  • Sintomi psicologici: irritabilità, aggressività, rabbia, risentimento, estrema difficoltà ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, negativismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, isolamento, sensazione di immobilismo, difficoltà nelle relazioni, cinismo, atteggiamento colpevolizzante e critico nei confronti dei colleghi e degli eventuali utenti.

Inoltre il burnout, molto spesso, porta il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo.

LE CAUSE INDIVIDUALI ED AMBIENTALI 

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Superficialmente si ritiene che il burnout sia esclusivamente un problema dell’individuo: le persone manifesterebbero tale disturbo a causa di “difetti” della loro personalità, dei loro comportamenti o delle loro competenze. In base a questo punto di vista, gli individui rappresentano il problema, e la soluzione sta nel lavorare su di loro o nel sostituirli. Vari studi hanno invece dimostrato come il burnout sia un problema sistemico: delle interazioni multidimensionali tra il lavoratore e il contesto sociale e organizzativo in cui il lavoratore stesso opera. Il lavoro (contesto, contenuto, struttura, ecc) infatti modella il modo in cui le persone interagiscono tra di loro e il modo in cui ricoprono la propria mansione. Quando l’ambiente di lavoro non riconosce l’aspetto umano, il rischio di burnout aumenta.

Alcune delle cause specifiche sono:

  • gratificazioni insufficienti;
  • scarsa remunerazione;
  • assenza di equità;
  • sovraccarico di lavoro;
  • mancanza di controllo;
  • crollo del senso di appartenenza;
  • valori contrastanti.

Fattori che possono determinare la sindrome

  1. Fattori del contesto e della struttura organizzativa

Esistono delle specifiche condizioni, legate all’ambiente di lavoro e all’organizzazione interna della struttura lavorativa, che aumentano il rischio di burnout, intensificando tensioni, stress e demotivazione. Tra queste troviamo:

  • il conflitto di ruolo:  si ha quando il lavoratore ritiene che le richieste che gli vengono rivolte siano incompatibili con il proprio ruolo professionale;
  • l’ ambiguità circa il proprio ruolo: si ha quando il lavoratore ha ricevuto/riceve insufficienti informazioni rispetto alla propria posizione/mansione;
  • la struttura di potere: riguarda il modo in cui vengono prese le decisioni nell’ambito lavorativo e la possibilità che ha l’individuo di parteciparvi;
  • il sovraccarico:  si ha quando all’individuo viene assegnato un eccessivo carico di lavoro/responsabilità, che non gli permette di svolgere serenamente e con soddisfazione la propria mansione;
  • la mancanza di stimolazione: si riferisce alla monotonia dell’attività lavorativa;
  • la turnazione lavorativa: la turnazione e l’orario lavorativo possono favorire l’insorgenza della sindrome; questo avviene più frequentemente nel personale che lavora secondo turni che non permettono di recuperare le energie necessarie;
  • retribuzione inadeguata.
  • 2. Fattori individuali 

Esistono dei tratti di personalità che rendono alcune persone più vulnerabili allo stress lavoro-correlato e quindi al burnout. Queste caratteristiche individuali interagendo con situazioni lavorative poco sensibili al “fattore umano”, possono portare con maggior frequenza al manifestarsi della sindrome. Tra queste abbiamo:

  • l’ introversione;
  • l’autoritarismo;
  • la tendenza a porsi obiettivi irrealistici;
  • uno stile di vita iperattivo;
  • l’abnegazione al lavoro (che arriva a sostituire la vita sociale);
  • il pensarsi indispensabili;
  • le motivazione e le aspettative professionali.

Esiste poi un tratto di personalità che è correlato alla sindrome, e cioè il tipo A: competitivo, ambizioso, aggressivo, puntuale, frettoloso, esigente con se stesso e con gli altri.

3. Fattori socio-demografici

  • differenza di genere: le donne sono più predisposte degli uomini;
  • età: nei primi anni di carriera si è più predisposti allo sviluppo della sindrome;
  • stato civile: le persone senza un compagno stabile sono più predisposte.

Per evitare che tale sindrome deteriori sia la vita lavorativa, sia la vita privata, bisogna intervenire velocemente e con efficacia.


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

Dott.ssa Silvia Darecchio (contatti)


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